Cristoforo Cataldo Pinto, nato a Gioia del Colle (Bari) il 10 maggio 1837 e morto a Milano il 22 giugno 1915, era l’ultimo figlio di Pietro Pinto e Giuseppina Antonicelli e fratello di Germana maritata D’Oreste, Paola maritata Pomes, Domenica maritata Barberis, Raffaella maritata Fortunato, Giovanni e Arcangela non sposati. Residente in corso Garibaldi 100 e poi in via Cesariano 2, aveva sposato Carlotta (o Carolina) Rosa della quale era rimasto vedovo. Venne sepolto nel Cimitero Monumentale di Milano (Colombaro II, edicola B, settore di levante).
L’eredità Pinto, lasciata alla Congregazione di Carità con testamento olografo 20 giugno 1915 pubblicato in data 25 giugno 1915 dal notaio Giberto Bertoglio di Milano, venne in seguito assegnata ai parenti del testatore dopo una lunga causa riassunta in un articolo de “La sera” del 23 marzo 1937: Pinto giunto in giovane età a Milano, ottenne un notevole successo professionale come architetto; nella primavera del 1915 venne colpito da una gastroenterite con complicazioni bronchiali e due giorni prima della morte redasse un testamento con l’aiuto dell’amico avvocato Giuseppe Pizzali nominando la Congregazione di Carità erede universale della sua sostanza che ammontava a oltre mezzo milione di lire. Nel 1921 il nipote Cristoforo Pomes impugnò il testamento per ottenerne l’annullamento sostenendo che lo zio nel momento della redazione del testamento non era in grado di intendere e volere ed era stato forzato nella sua decisione dall’avvocato Pizzali. Sulla copia dell’originale olografo, la scrittura risultava tremante e quasi illeggibile; inoltre poteva destare sospetti il fatto che Pinto avesse trascurato completamente tutti i parenti, che risultavano in buoni rapporti con il testatore, ma soprattutto si dichiaravano “poveri, ma molto più poveri dei poveri di Milano” che la Congregazione di Carità si proponeva di aiutare con l’eredità in oggetto. La causa promossa dal nipote viene rigettata nel 1925 e ripresa in appello nel 1927; nel giugno 1940 il testamento venne giudicato nullo; nel 1941 si ebbe la sentenza definitiva in favore dei nipoti del testatore; nel 1942 morì Cristoforo Pomes, ma la trattativa venne portata avanti dai fratelli; nel maggio 1943 il Comitato di amministrazione dell’E.C.A. deliberò una formula di conciliazione offrendo agli eredi Pinto due milioni di lire oltre allo stabile in via Cesariano 2. Gli altri immobili lasciati in eredità, situati a Gioia del Colle (corrispondenti a un caseggiato in strada Verdi dai numeri 9 a 19 e due fondi rustici a vigneto), erano stati precedentemente venduti.
Per quanto concerne la figura professionale di Cristoforo Pinto presso l’archivio dell’ASP Golgi-Redaelli è conservata la documentazione relativa ad alcuni lavori svolti a Gioia del Colle in collaborazione con il nipote Giovanni Masi: edifici residenziali, restauro del camposanto (1881-1893), sistemazione e facciata della chiesa di S. Lucia (anni Dieci del Novecento); vi sono inoltre le nomine a membro della Commissione edilizia e della Commissione municipale di sanità e di Gioia del Colle nel quadriennio 1881-1885 e una lettera autografa di Camillo Boito (datata Venezia, 15 agosto 1890) dalla quale si deduce che Pinto svolse inizialmente l’attività di architetto senza averne il titolo ufficiale. Boito, infatti, rinnovando espressioni di stima per il lavoro di Pinto, gli suggeriva di rivolgere una domanda a Antonio Caimi, direttore della regia Accademia di Belle arti in Milano, per ottenere un diploma grazie ai suoi titoli e alla sua carriera: il Pinto, che già aveva ricevuto un premio alla “scuola di architettura elementare”, nel 1867 ottenne il premio “per gli esperimenti di composizione estemporanea e per un grandioso progetto di cattedrale in istile lombardo”, “l’anno seguente fu, tra molti concorrenti, scelto per la corona nel gran concorso Canonica”, nel 1890 risultò “vincitore nel concorso triennale di architettura, s’ebbe la medaglia d’oro, e fu onorato dal consiglio accademico della allogazione del difficilissimo progetto di una facciata pel Duomo di Milano […] esposto alla pubblica mostra di Belle arti”.
(da Il tesoro dei poveri, pp. 270-271, testo di Maria Canella)