Il 24 gennaio 1839 sua maestà l’imperatore Ferdinando I si degnava di concedere a Giuseppe Andrea Francesco Saverio Giovanni Gianella, dell’età di soli quattro anni, il titolo di nobile, per i meriti acquisiti dal nonno materno, Andrea Spech.
Il bambino era l’unico figlio nato dalla breve unione fra la giovane ed avvenente Matilde Spech e Giuseppe Gianella.
La famiglia del padre era originaria della Val di Blenio, in Svizzera, ma si era da lungo tempo trasferita in Milano, dove era riuscita ben presto ad acquisire una solida posizione con il capostipite, il dottor fisico Gian Giacomo ed i suoi figli, Giacomo avvocato, Francesco medico, Carlo ingegnere e Giuseppe. Quest’ultimo nei primi anni dell’Ottocento, con il sostegno del padre, aveva intrapreso l’avventura commerciale, rilevando alcuni locali nell’ex monastero di Santa Prassede dove aveva impiantato una manifattura di cotone. L’impresa non aveva però avuto successo, a causa soprattutto dei debiti contratti dal socio dei Gianella, lo svizzero Leonardo Brenneisen. L’attività fu sospesa nel 1813, mentre Giuseppe passava a lavorare presso il Corpo d’acque e strade dove già aveva avviato una brillante carriera il fratello Carlo.
La famiglia Spech, invece, d’origine austriaca ed ascritta alla nobiltà ungherese fin dal 1754, era giunta a Milano nel 1758. Costretti ad abbandonare la città alla venuta dei francesi, per i loro stretti legami con la corona d’Asburgo, gli Spech vi rientrarono nel 1815 al seguito del feldmaresciallo Bellegarde, subito adoperandosi per recuperare un ruolo di prestigio nell’ambito dell’élite milanese. Questo progetto fu perseguito anche attraverso un’oculata politica matrimoniale, che portò gli Spech ad imparentarsi con alcune importanti e facoltose famiglie.
Frutto di questo disegno deve essere stato con ogni probabilità anche il matrimonio celebrato nel 1832 fra la diciottenne Matilde e Giuseppe Gianella, dell’età di cinquantadue anni. Il matrimonio ebbe breve durata e venne bruscamente interrotto dalla repentina morte dello sposo il 22 giugno 1834, quando ormai mancavano solo due settimane alla nascita del primogenito. Il bambino venne alla luce il 6 luglio fra le mura di Palazzo reale, dove il nonno Andrea Spech, consigliere ed intendente di palazzo, risiedeva e dove la madre si era temporaneamente trasferita dopo la morte del marito.
Battezzato lo stesso giorno nella chiesa di S. Gottardo con il nome di Giuseppe, in memoria del padre, venne subito posto sotto la tutela del nonno materno (decreto dell’I.R. Tribunale civile del 15 luglio 1834), dal quale fu allevato e che si occupò di curarne l’educazione e tutelarne gli interessi fino al raggiungimento della maggiore età.
I rapporti con la famiglia del padre si raffreddarono ben presto mentre nemmeno con la nuova famiglia formata dalla madre – sposatasi con Carlo Pirovano Visconti nel 1837 – riuscì mai ad instaurare profondi legami affettivi.
Avviato agli studi legali, ma d’indole schiva e riservata, non si dedicò mai alla professione e ancora giovanissimo decise di ritirarsi a vivere presso la Cascina Meriggia di Baggio – che aveva ereditato dalla nonna paterna, Anna Locatelli – da dove poteva gestire direttamente le terre e gli interessi che lì possedeva e dove poteva dedicarsi ad una delle sue grandi passioni, l’equitazione.
Nel 1860, all’età di soli ventisei anni, divenne primo sindaco di Baggio, dimostrando una particolare affezione per questa carica, partecipando a tutte le riunioni della giunta e a tutti i consigli comunali sino alla fine del 1872, quando le sue condizioni di salute improvvisamente peggiorarono, portandolo alla morte il 18 giugno 1873.
Il 14 giugno, ormai consapevole del destino che lo attendeva, Giuseppe Gianella stilò il proprio testamento, con il quale nominava erede universale delle proprie sostanze la Congregazione di Carità di Milano, destinava la somma di 50.000 lire alla costruzione di un asilo infantile in Baggio, riservava alcuni legati alle persone che più gli erano state vicine negli ultimi anni (primo fra tutti lo zio Francesco Spech, suo esecutore testamentario), lasciando alla madre la sola quota legittima.
(da Il tesoro dei poveri, pp. 222-223, testo di Maria Cristina Brunati)