Nato nel 1645 da Francesco e Giulia Ricci, Giovanni Antonio Parravicini era membro di una antica famiglia di origine comasca che aveva messo radice in Valtellina e a Roma. Il padre Francesco e i fratelli Alessandro e Lelio, grazie all’attività di banchieri e di prestatori su pegni, avevano accumulato un ingente patrimonio mobiliare ed immobiliare, ed avevano stretto forti legami con importanti uomini non solo della società milanese ma anche di quella romana: la forte amicizia che legava Francesco al cardinale Benedetto Odescalchi – il futuro Papa Innocenzo XI, anch’egli come il padre di Giovanni Antonio nato a Como – favorì infatti significativamente i loro affari in area romana.
Figlio e nipote di banchieri, Giovanni Antonio intraprese ben presto l’attività di famiglia e, come il padre, fece di Milano e Roma le sue principali piazze d’affari. Fino agli ultimi anni del Seicento, quando si stabilì definitivamente nel Milanese, Giovanni Antonio divise infatti la sua vita tra le due capitali. Anche dopo il 1680, anno in cui prese in moglie la contessa Francesca Castiglioni, esponente di una influente famiglia patrizia milanese, il “nobilis Romanus et Patritius Mediolanensis” – come risulta da una procura del 1695, anno di morte del fratello Giuseppe, tesoriere generale del Papa e della Camera Apostolica, nonché chierico di Camera di Innocenzo XI – continuò a mantenere la propria residenza a Roma. E fu proprio durante questi suoi lunghi soggiorni romani che l’intraprendente banchiere divenne un intelligente ed aggiornato collezionista, e riversò nella ricerca e nella raccolta di dipinti per la già consistente quadreria familiare, iniziata forse dal padre durante i suoi viaggi a Roma, lo stesso fervore ed acume che lo avevano distinto nel mondo degli affari. Nell’arco di circa trent’anni Giovanni Antonio era infatti riuscito ad accrescere le cospicue eredità che prima il padre poi, nel 1692, lo zio e infine, nel 1695, il fratello Giuseppe, gli avevano lasciato. Alla fine del secolo Giovanni Antonio si ritrovava concentrata nelle proprie mani una vasta fortuna: oltre ad un considerevole capitale liquido che si aggirava intorno alle tre-quattrocento mila lire, il Parravicini era proprietario di numerose case da nobile, fondi con annessi rustici “da massari e pigionanti” sparsi nei territori dello stato milanese – a Cassano, pieve di Incino, a Seregno, pieve di Desio, a Perlasca, vicino a Torno sul lago di Como, a Sesto San Giovanni, corte di Monza, nella città di Como – del palazzo di Porta Nuova, parrocchia di San Pietro con la Rete, e di numerose abitazioni nella stessa capitale Milanese, nonché di ville con giardini a Roma e a Civitavecchia.
Sul finire del secolo l’oramai cinquantenne banchiere si stabilì definitivamente nel Milanese, spostandosi tra il nobile palazzo milanese e la villa di Sesto San Giovanni: non si sa con esattezza la ragione di tale definitivo trasferimento, si può solo ipotizzare, sulla base di alcuni passi del suo testamento redatto nel 1717, che l’età oramai avanzata, per l’epoca, e forse soprattutto le cattive condizioni di salute lo abbiano spinto a riavvicinarsi al luogo natio.
Nel 1709, forse nella speranza di avere un erede che la prima moglie non era riuscita a dargli, sposò la giovane Giustina Vimercati che tanto affettuosamente venne ricordata nelle sue ultime volontà. Fu per tre volte – nel 1701, 1709 e 1710 – deputato dell’Ospedale Maggiore di Milano; e negli ultimi anni della sua vita fu nominato anche deputato del Luogo pio delle Quattro Marie, a favore del quale, nel 1721, qualche mese prima di morire, fece una donazione “per carità” pari a 3000 lire “da convertirsi in due doti annue per doe figlie povere della città, orfane o di padre o di madre”.
Giovanni Antonio Parravicini morì il 12 aprile 1721 all’età di 77 anni. Nel suo testamento del 26 gennaio 1717 istituiva erede universale il nipote conte Giovanni Porta, figlio della sorella Maria e del questore Giovanni, e i suoi legittimi discendenti maschi con ordine di primogenitura, e, in caso di estinzione della linea, nominava erede in via di sostituzione l’Ospedale Maggiore di Milano, legandogli 10.000 scudi per una sola volta. Oltre a beneficare i poveri dell’Ospedale di Como, il Luogo pio della Stella di Milano, la Chiesa di San Celso, l’Ospedale Fatebenefratelli e altri luoghi pii e corporazioni, il Parravicini fu particolarmente generoso con il “dilettissimo cognato” conte Pietro Francesco Visconti Borromeo, a cui lasciò tutti i suoi beni situati nei territori del comune di Sesto, corte di Monza e di Bresso compresa la villa “et tutti li mobili, addobbi, e suppellettili che vi si trovaranno”, e con il fattore della suddetta villa a cui lasciava “scudi quaranta da lire sei ogni anno” da corrispondergli “vita natural durante” in riconoscenza della “buona servitù”. E ancora si preoccupò di assicurare alla “dilettissima consorte” Giustina un tenore di vita consono al suo status, lasciandole un legato annuo di 2000 filippi da 7 lire imperiali ciascuno e riconoscendole il diritto di abitare “finché durerà lo stato vedovile” nel palazzo milanese e di villeggiare nella villa di Sesto. Infine obbligava il nipote a far compilare “con la maggior prontezza possibile”, in collaborazione con la moglie, un inventario di tutte le sue sostanze ereditarie; inventario che avrebbe dovuto essere “admesso, accettato, et approvato omninamente senza veruna replica o eccezione dal mio erede […] sotto pena della privazione ipso facto della mia eredità”.
Nulla più delle fitte pagine di detto inventario, incominciato il 24 aprile 1721 e proseguito per buona parte dell’anno successivo, testimonia la vastità della fortuna che il Parravicini era andato accumulando nel corso della sua vita e soprattutto la vivace personalità del banchiere-collezionista: tra i mobili e suppellettili che arredavano le sue dimore e gli oltre 500 dipinti di cui si fregiavano il suo palazzo e le sue case da nobile, era presente anche il letto da parata appartenuto a Innocenzo XI, a lui pervenuto con l’eredità del fratello Giuseppe “insieme a un cuscinetto con fodretta sopra cui spirò la Santa memoria di Innocentio Undecimo”.
(da Il tesoro dei poveri, pp. 70-71, testo di Katia Visconti)