Nell’età della restaurazione, forse sull’esempio dell’Ospedale Maggiore, l’Amministrazione avvertì l’esigenza di raccogliere e uniformare in una serie autonoma le quadrerie degli antichi Luoghi Pii, operazione che da un lato preservò dal pericolo di dispersioni, ma dall’altra offuscò l’identità di provenienza. Una memoria dell’agente Giovanni Castiglioni chiarisce come i trentaquattro ritratti antichi allora presenti nella raccolta fossero stati radunati a Milano nel 1824 “dalle diverse case di campagna d’essi Luoghi Pii dove trovavansi”, con una meritoria e consapevole operazione di recupero coronata dall’esposizione dei dipinti, appositamente restaurati, “all’ingiro della corte” della Pia casa d’Industria a San Vincenzo in occasione della festa patronale.
Contemporaneamente, nei nuovi amministratori si diffuse la consapevolezza di ottemperare alle ragioni della memoria e della riconoscenza mantenendo in vita e incrementando la galleria dei ritratti dei benefattori. Tuttavia la nuova raccolta ebbe in principio vita stentata: alla commissione del ritratto del conte Alfonso Turconi, affidata a Giovanni Battista Bagutti nel 1817, seguì infatti un lungo periodo di vuoto – vent’anni – interrotto da una ripresa piuttosto consistente che, sia pure rallentata, non avrebbe più interrotto il suo corso.
Nel 1831 il barone Francesco Cornalia, amministratore dei Luoghi Pii, aveva accarezzato l’idea di dedicare al benefattore Antonio Maria Proti un ambizioso monumento commemorativo in marmo istoriato, ma tale ipotesi, documentata da un progetto grafico realizzato da Giovanni Antonio Labus, non fu attuata mancando l’Amministrazione di una sede propria e il sacerdote fu onorato da una più sobria lapide posta sulla sua tomba. La stessa ragione avrebbe persuaso Cornalia a ripiegare sui tradizionali ritratti pittorici, più economici e, soprattutto, idonei a essere sottoposti a frequenti spostamenti.
Insediandosi nel 1834 in una nuova sede (benché ancora in affitto), l’ente fu in grado di accogliere nuovamente la galleria dei ritratti, che dopo l’esposizione del 1824 era rimasta temporaneamente presso la Pia casa d’Industria in San Vincenzo: ciò provocò qualche resistenza da parte del direttore Michele Barozzi che aveva provveduto a inventariare i dipinti. Da quel momento i due istituti proseguirono parallelamente, ma in autonomia, a incentivare le rispettive quadrerie. Durante il biennio 1836 – 1838 l’Amministrazione deliberò infatti l’esecuzione di tre effigi, quelle di Antonio Maria Proti, Claudia Caterina Clerici Bigli e Giovanni Aloardi, affidandoli rispettivamente ad alcuni tra i più affermati ritrattisti operanti nell’ambito milanese, Giuseppe Sogni, Napoleone Mellini e al ticinese Abbondio Bagutti. La presenza più prestigiosa era senz’altro quella di Sogni, che in precedenza aveva prestato la sua opera per l’Ente in qualità di restauratore, era titolare della cattedra di figura disegnata presso l’Accademia di Brera e nello stesso 1837 aveva realizzato il ritratto dell’imperatore; tutti e tre gli artisti potevano contare su una collaudata pratica nel settore del ritratto gratulatorio avendo già lavorato per la quadreria dell’Ospedale Maggiore. A partire dal 1838, inoltre, sull’esempio del Barozzi alle Pie case d’Industria, anche i Luoghi Pii Elemosinieri fecero ricorso alle sapienti doti di ritrattista del meno noto Carlo Picozzi, che per l’Amministrazione eseguì i ritratti di Carlo Costanzo Manzoni (1838), Francesco Gusberti (1841), Giovanni Battista Delfinoni (1843) e Ignazio Vidiserti (1847). Come si evince dai documenti d’archivio, in quegli anni la responsabilità della scelta degli artisti da interpellare e la gestione del rapporto con loro non era pertinenza esclusiva degli amministratori, come appunto il barone Cornalia, che nel 1844 commissionò a Luigi Pedrazzi il ritratto di Francesco Mainoni, ma anche dell’agente urbano Giovanni Castiglioni, responsabile dell’incarico a Giacomo Martinez per i ritratti di Giovanni Battista Birago (1847) e Giacomo Mellerio (1851) e a Gaetano Barabini per il ritratto di Giovanni Merlo (1849). Si trattava di professionisti seri ma certo non di primo piano, scelti forse anche in relazione ai contenuti compensi che l’Amministrazione poteva offrire, lontani da quelli della più ricca Ca’ Granda.
L’acquisto nel 1853 di una sede propria – il prestigioso palazzo Archinto – permetteva di programmare con lungimiranza gli sviluppi della quadreria e di progettare con maggiore determinazione nuove forme commemorative dei benefattori, come ad esempio le lapidi gratulatorie oggi perdute e altre forme celebrative scultoree. Ciò avvenne grazie soprattutto alla presenza a capo dell’Amministrazione di Pietro Steffli, intimo di Tommaso Grossi e dell’élite culturale gravitante intorno a casa Manzoni. Durante la sua breve direzione (1852-59) si assisteva a una nuova intelligenza del problema della qualità, come confermano i nomi di Giuseppe Sogni, Cesare Pezzi e Felice De Maurizio, cui furono allogate le effigi di Francesco Teodoro Arese Lucini (1855), Francesco Belcredi (1856) – a quest’ultima commissione subentrò lo stesso Sogni dopo la morte di Pezzi – e Giuseppe Calcaterra (1857). A culmine di questa felice stagione si poneva la donazione del bellissimo ritratto di Giovanni Battista Puricelli Guerra, uno degli ultimi ritratti di Mauro Conconi, eseguito anche a figura intera per la galleria dell’Ospedale Maggiore.
(da Il tesoro dei poveri, pp. 171-172, testo di Marco Bascapè e Sergio Rebora)