La quadreria della Congregazione di Carità

All’indomani dell’unità nazionale si assisteva a un calo nell’incremento della quadreria dei benefattori, una attenuazione forse dovuta al riassetto istituzionale dell’ente in Congregazione di Carità. Dopo l’arrivo del Ritratto di Giovanni Battista Puricelli Guerra (1857 circa), con ogni probabilità donato da Teresa Torri, madre dell’effigiato, si doveva infatti attendere la metà degli anni Sessanta dell’Ottocento per assistere a una ripresa delle commissioni.
Mentre nel decennio precedente la profonda competenza culturale di Pietro Steffli poteva riflettersi direttamente nella fisionomia della quadreria, che aveva allora visto la presenza di artisti di non secondo piano quali Giuseppe Sogni e Mauro Conconi, ecco fare adesso la loro comparsa onesti ma oscuri professionisti, come il disegnatore e litografo Alessandro Reati con il ritratto di Pietro Niccolini (1864) e Giuseppe Landriani con quello di Teresa Giorgi Oppizzoni Paceco (1866), quest’ultimo artista specialista in nature morte a tema floreale e scene di genere ambientate nei campi. Il coinvolgimento di Luigi Cavenaghi, autore del ritratto di Giuseppe Giussani (1874), potrebbe essere stato dettato da ragioni di opportunità, dato il crescente ruolo di spicco assunto dal pittore e restauratore a Milano, e progressivamente su tutto il territorio lombardo, nell’ambito della leadership braidense accanto a Giuseppe Bertini e Camillo Boito.
La svolta avvenne nel 1875, quando il Consiglio decideva di attuare una radicale modifica tipologica alla galleria introducendo la forma del ritratto a mezzo busto in marmo in sostituzione a quella tradizionale dell’effigie a olio su tela e al naturale a figura intera, e in aggiunta a quella a olio a tre quarti. Ciò si può spiegare attraverso ragioni diverse, non secondarie quelle di carattere culturale. Gli anni Settanta dell’Ottocento vedevano infatti il clamoroso successo della cosiddetta scuola lombarda di scultura in rapporto alle esposizioni internazionali, soprattutto quella svoltasi a Vienna nel 1873. L’abilità raggiunta dagli artisti usciti dalle aule di Brera e operanti sul territorio lombardo nella riproduzione fedele di fisionomie, ma anche di particolari dell’abbigliamento come trine e gioielli, non trovava competitori se non nei maestri liguri. La stagione del verismo autorizzava gli scultori ad accentuare la tendenza mimetica fino al virtuosismo, spesso sacrificando al compiaciuto effetto ottenuto con il trapano la lettura psicologica del personaggio.
Non dovrà inoltre essere sottovalutato il ruolo di Carlo D’Adda, presidente della Congregazione di Carità dal 1868 al 1886. Il senatore Carlo e suo fratello Giovanni, appartenenti a una cospicua famiglia dell’aristocrazia lombarda, potevano essere considerati mecenati e collezionisti di primissimo piano nella Milano del secondo Ottocento. Nell’allestimento della galleria dei ritratti di famiglia i D’Adda erano infatti ricorsi alla collaborazione dei più affermati artisti del momento, come Francesco Hayez, Giuseppe Molteni e Giuseppe Bertini; il loro nome era tuttavia collegato a una delle maggiori imprese di scultura dell’epoca, il sepolcreto di Maria D’Adda Isimbardi in Arcore a opera di Vincenzo e Lorenzo Vela. Forse consapevole del carattere nobilitante e imperituro del ritratto scultoreo in marmo, derivato da una tradizione che affondava le radici nella cultura dell’età imperiale romana e si era rinnovata nel rinascimento mediceo e pontificio, Carlo D’Adda potrebbe aver ritenuto tale forma gratulatoria più attraente per i potenziali benefattori della Congregazione.
La stessa intenzione muoveva in quegli anni Paolo Taverna, presidente del Pio Istituto dei Sordomuti Poveri di Campagna, che infatti deliberò di riservare ai suoi benefattori un’analoga tipologia ritrattistica facendo ricorso spesso agli stessi scultori.
A Giosuè Argenti (ritratti di Sebastiano Mondolfo, Giuseppe Gianella e Antonio Lainate), Pasquale Miglioretti (ritratto di Maria Rosa Pessina Cavalletti) ed Emilio Bisi (ritratto di Luigi Manganoni), maturi maestri i primi due e fresco esordiente il secondo, subentrarono nella seconda metà degli anni Settanta Gerolamo Oldofredi Tadini e Donato Barcaglia. Figura ancora poco nota di nobile dilettante approdato a un professionismo sicuro, il conte Oldofredi Tadini realizzò per la Congregazione ben tre ritratti, quelli di Bernardo Locati (1876), Pietro Gonzales (1879) e Francesco Biffi (1880), esempi efficaci della sua sobria adesione ai canoni del verismo. Barcaglia invece, benché più giovane, si era già affermato nel settore della ritrattistica per la capacità di restituire ai suoi modelli una rassomiglianza quasi fotografica, testimoniata in questa sede anche dalle effigi di Cesare Fantelli (1877), Teresa Parola Venegoni (1878), Andrea Vergobbio (1880) e Carlo Canetti (1884).
La sequenza dei busti in marmo si arrestava con la successione di Giorgio Giulini a Carlo D’Adda alla carica di Presidente della Congregazione (1886-1891). Fu il consigliere Giuseppe Ravetta a proporre la dismissione dell’effigie scultorea in favore di quella pittorica (1887). Forse, dopo dieci anni di esperienza, tale prassi si era rivelata perdente in termini di propaganda e immagine rispetto a quella pittorica, senz’altro più confacente al gusto tradizionale della committenza lombarda. Inoltre, a fronte di un costo maggiore per l’Ente, le sculture comportavano problemi di allestimento: delicate e pesanti, richiedevano infatti una sistemazione fissa, garantita mediante mensole a muro intervallate alle epigrafi con i nomi dei benefattori.
A partire dal 1887 ecco dunque riprendere vita la tipologia dell’effigie pittorica. Anche il retaggio della famiglia Giulini, depositaria di solide tradizioni culturali, si faceva sentire nella scelta degli artisti incaricati dei nuovi ritratti. Negli anni della presidenza del conte Giorgio Giulini collaborarono alcuni tra i migliori protagonisti della pittura lombarda moderna: Bartolomeo Giuliano con il ritratto di Antonio Gavazzi (1887), Eleuterio Pagliano con quello di Cesare Maderna (1887), Giuseppe Bertini, figura cardine del milieu ambrosiano, con quello di Giovanni Battista Polli (1888). Ai giovani Amero Cagnoni e Camillo Rapetti, reduci dall’esperienza della tarda scapigliatura, furono invece affidate le commissioni delle effigi di Marianna Carones Ravizza (1891) al primo, di Maddalena Agudio Gualla (1887-1888), Vincenzo Nasoni (1888) e Luigi Greco (1889) al secondo. Tali scelte ambivano palesemente ad affermare una politica culturale di prestigio, in grado di porre l’immagine della Congregazione alla pari di quella dell’Ospedale Maggiore surclassando gli altri enti ambrosiani.
Tra gli anni Novanta e il primo decennio del Novecento fecero la loro comparsa altri pittori: Emilio Magistretti (per i ritratti di Maria Mantegazza, 1893 e di Luigi Crivelli, 1902), Enrico Crespi (ritratto di Faustina Foglieni Brocca, 1893), Arturo Ferrari (ritratto di Giovanni Battista Agudio, 1902), Giuseppe Barbaglia (ritratto di Giovanni Saldarini, 1903). Con la presenza di Riccardo Galli, interprete dell’aristocrazia e dell’alta società ambrosiana, autore per la Congregazione dei ritratti di due benefattori prestigiosi, Carlo Giulio Trolliet (1903) e Pompeo Confalonieri (1908), la raccolta si aggiornava sul gusto della belle époque. Non sarà stata forse del tutto estranea alle scelte di questi anni la figura del presidente Camillo Rognoni, fratello di una delle più note pittrici di paesaggio operanti in Lombardia, Francesca Gratognini Rognoni.
Con le scarse commissioni degli anni precedenti e successivi alla prima guerra mondiale la galleria sembra concludere la sua vicenda. Gli scarsi nomi che affiorano – Giacomo Campi, Antonio Pasinetti, Antonio Moretti (rispettivamente per i ritratti di Edoardo Crespi, Angela Frova Galliani, Cristoforo Pinto) – non permettono comunque di individuare una precisa valenza di gusto, come conferma la distanza tra i due soli artisti che lavorarono per la Congregazione negli anni Trenta: Giuseppe Amisani (per il ritratto di Emanuele Greppi), continuatore dell’enfatica linea talloniana, e Umberto Lilloni, che nel ritratto di Sofia Gervasini appare ormai coinvolto nella declinazione delle poetiche chiariste.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 208-210, testo di Sergio Rebora)

Oltre alla galleria dei ritratti dei benefattori e alle opere conservate negli oratori e negli altri edifici di sua proprietà, il patrimonio artistico dell’Ente – come quelli di altri istituti assistenziali e ospedalieri lombardi – comprende anche alcuni dipinti di varia provenienza. Si tratta perlopiù di opere pervenute attraverso i lasciti testamentari dei benefattori, in alcuni casi a titolo di legato esplicito, in altri come rimanenza dallo spoglio o dalle alienazioni dei beni provenienti dalle case dei testatori stessi. Di norma, infatti, eventuali opere d’arte comprese in un’eredità erano destinate alla vendita, così come il resto dei mobili, per finanziare le prioritarie attività assistenziali; per fare un solo esempio, resta traccia documentaria – purtroppo assai laconica – dell’alienazione di una cospicua collezione artistica ottocentesca, quella del cav. Pietro Gonzales, dalla quale almeno ci resta La Contemplazione dello scultore Giovanni Strazza, statua già conservata nell’appartamento milanese del benefattore e collocata per sua volontà sulla sua sepoltura. Resta per ora ignota, invece, la provenienza della tavola del Bergognone raffigurante San Rocco, restaurata da Cavenaghi nel 1874 e venduta nel 1888 alla Pinacoteca di Brera.
Due eccezioni documentate a tale consuetudine, relative ai lasciti Agudio e Saldarini, risalgono entrambe ai primissimi anni del Novecento. Con l’eredità di Giovanni Battista Agudio, nel 1902, l’Ente entrò in possesso di un nucleo di dipinti antichi e moderni, ancora parzialmente presenti nella quadreria. Dalle carte si desume la consistenza originaria della collezione, che nel corso dei decenni fu depauperata non solo dalle alienazioni ma anche dai furti, come nel caso di una piccola Testa di Madonna, attribuita dalle fonti a “scuola emiliana o Correggio”, trafugata nell’estate del 1924, mentre nel 1990 si è rilevata la sparizione del bel dipinto seicentesco Angelica e Medoro, che nella raccolta Agudio faceva da pendant alla Figura maschile con i polsi legati. L’incartamento relativo al primo episodio ci svela come, negli anni Venti, un nucleo di dipinti “provenienti da eredità diverse” si trovasse raccolto, al secondo piano di Palazzo Archinto, in un apposito magazzino isolato, dove stavano “quadri di varie dimensioni o appesi alle pareti o posati sul pavimento o collocati su un tavolo posto in un angolo del locale”.
È raro tuttavia che, come nel caso Agudio, ci si trovasse di fronte a vere e proprie collezioni programmaticamente costituite; in prevalenza si trattava di opere isolate conservate dagli originari proprietari come oggetti di arredamento. È ad esempio il caso della Maddalena seicentesca lasciata alla Congregazione da Giovanni Saldarini nel 1903: l’inventario della sostanza abbandonata dal benefattore chiarisce che il dipinto era una presenza isolata ed eccezionale.

(da Il tesoro dei poveri, pp. 279-280, testo di Marco Bascapè e Sergio Rebora)